Un click sul tasto della cornetta rossa di Google Hangouts Meet. Così immagino di vivere l’ultimo giorno di una scuola, l’ultimo giorno di una scuola conosciuta il 1 ottobre e lasciata all’improvviso. Sono uscita dalla classe un anonimo giovedì di marzo, per non tornare mai più fra i miei studenti.

Si avvicina il fatidico momento di giugno in cui ogni anno, tra l’eccitazione per l’estate incipiente e la commozione per la fine delle fatiche di tutto un anno scolastico, cerco di costruirmi le immagini di un passato prossimo, un album di ricordi fatto di volti di studenti e colleghi che forse non incontrerò mai più nella vita, o forse sì, prossimamente, come in quei film dove uno ti compare davanti, ti guarda, ti sorride e ti dice: «Ehi, ti ricordi di me? Andavamo a scuola insieme».

Le scuole, si sa, sono state costruite da gente che evidentemente faceva il disegno di una scatola, lo riempiva di rettangoli/finestre e, senza il minimo criterio, disponeva all’interno aule con misure a casaccio, corridoi stretti, mini bagnetti, termosifoni enormi in aule piccole e viceversa. Al tempo della costruzione della maggioranza delle scuole italiane, a nessuno veniva in mente la possibilità che potesse essere una buona cosa il risparmio energetico, la verifica degli spazi con l’eventuale previsione di un incremento del numero di alunni per classe, l’importanza della luce. Oggi il calore che d’inverno si disperde dalle finestre (e che rende le aule gelide) è pari a quello che entra dalle fessure nell’ultimo mese (e che rende le aule torride). Ma va bene così. Andava bene così. La scuola è anche questo.

Questa ultima settimana doveva essere la fase dei sensi di colpa, del “l’avessi fatto prima”, dell’ansia di non riuscire a recuperare in tempo, della voglia di lasciare indietro qualche materia che tanto si pensa di non riuscire a recuperare. Gli ultimi giorni di scuola sono i più pesanti perché si ha sulle spalle la fatica di tutto l’anno di cui le principali vittime sono i genitori costretti a delle corse pazzesche contro il tempo tra uno “studia, studia” e “hai fatto i compiti e l’altro”.

Questa settimana doveva essere dedicata alle ultime sveglie delle 5 del mattino, alle ultime canzoni cantate a squarciagola in autostrada per non addormentarmi al volante, ai viaggi della speranza verso la costiera amalfitana, agli ultimi caffè dell’anno in compagnia dei colleghi, alle ultime frasi “è stato bello conoscerti”, “grazie mille per la tua amicizia”. Questa settimana doveva essere dedicata a dire addio, anzi, doveva concludersi con un gelato sulla spiaggia, una chiacchiera fianco a fianco e un bagno a mare.

Ho imparato che l’emergenza è il momento in cui si mettono i cerotti e che non c’è tempo per i cambiamenti. Soprattutto serve alleanza, non servono nemici in casa, ma amici con cui affrontare la battaglia insieme. Quando si ha poco tempo, servono strategie efficaci: la mia? Pensare a me stessa. Darmi la priorità sempre e non rinunciarci mai. Ci sono riuscita ma non del tutto. Insegnare per me è una passione, entrare in classe una vocazione. Mi fa male non poter dire “ci vediamo l’anno prossimo” e dopo sei anni di insegnamento ancora mi devo abituare al fatto che tutto finisce.

Io non mi sono mai abituata al senso di distacco che si prova quando sai che l’anno dopo quei ragazzi, quei tuoi alunni che ti hanno fatto preoccupare, arrabbiare, ridere, innervosire, stancare, stare in pena, quei ragazzi che ami anche se in certi momenti non riesci a sopportarli (e se tu non fossi capace di amarli nonostante tutto sarebbe un disastro) non saranno più “i tuoi ragazzi”. Avranno un altro docente di storia e filosofia ed io dovrò farmene una ragione. Dovrò farmene una ragione di molte cose, accadute quest’anno ma non è il momento.


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